martedì 28 gennaio 2020

LE BRACI - Regia di Laura Angiulli


In scena al teatro Piccolo Eliseo dal 23 gennaio al 9 febbraio “Le braci” tratto dal celebre romanzo di Sàndor Màrai scrittore e giornalista ungherese naturalizzato statunitense.
Tutta la produzione di Màrai è stata riscoperta in modo tardivo, ripubblicata in francese, inglese, tedesco e italiano, ed è ora considerata parte dei capolavori della letteratura del ventesimo secolo. L'opera “Le braci” infatti, fu pubblicata nel 1943 ma apparsa in Italia solo nel 1998 e non ha mai smesso di incontrare il favore di migliaia di lettori, divenendo un classico della letteratura mitteleuropea, emblema di un mondo perduto.
Numerose le riproposizioni teatrali in giro per il mondo, persino operistiche. Il testo di per sé nella sua struttura potrebbe mostrarsi favorevole a un simile lavoro di adattamento, ma in realtà chi lo ha letto con attenzione capirà la difficoltà di questa operazione essendo quello di Marai oltre che uno stile asciutto e raffinato, anche adorno di descrizioni minuziose e digressioni interiori che non è facile rendere al di fuori della carta stampata.
Mettere in scena un testo così dialogico è operazione complessa. Fulvio Calise in questo caso lo riduce con accuratezza ad una pièce di sessanta minuti, restando fedele al testo e all'eleganza sintattica dell'autore, ritagliandone i passaggi più preziosi e rappresentativi, non indugiando sui preamboli e introducendo quasi immediatamente l'incontro fatidico tra i due protagonisti.
Konrad (Stefano Jotti) sapeva che un giorno sarebbe tornato a Vienna, e il generale Henrik (Renato Carpentieri) sapeva che un giorno sarebbe giunto quel momento. Solo questa consapevolezza ha mantenuto in vita entrambi per anni.
Márai nel suo testo riserva parole molto profonde e si dilunga non poco per descrivere il loro legame di un tempo. In questo caso lo si afferra man mano che il colloquio prende forma e che le dinamiche iniziano a dipanarsi.
La scena è ferma, scarna, quasi a sottolineare un mondo ormai spento. Sono i ricordi a farla da padrone, in una stanza in cui non si entra più da quarant'anni. Nel castello dell'aristocratico generale Henrik tutto è rimasto come prima. La pièce ha inizio proprio con l’ingresso perentorio di Henrik in quella stanza. E' tempo di riesumare le tre poltrone, sulle quali i due amici solevano trascorrere le loro giornate insieme, liberandole dai vecchi lenzuoli che le ricoprivano, quei giorni in cui l' amicizia e l'amore sembravano sacri, intaccabili. La scenografia è essenziale: una piccola scrivania in un lato, il caminetto sulla parete e le tre poltrone poste a triangolo, quel triangolo maledetto che ha avvelenato le loro vite.
Sullo sfondo il crollo dell’Impero Austro-Ungarico durante il quale si è consumata la fine di un’intera classe politica, economica e militare. Il testo di Márai osserva quel periodo dalla prospettiva di una forte amicizia, due mondi che si scontrano, l' aristocrazia e l’incalzante classe borghese.
Da una parte Henrik, le eleganti dimore e le battute di caccia, dall'altra Konrad, la modestia di una vita semplice e l'amore per la musica.
Henrik afferma di essersi sempre adattato allo stato di inferiorità sociale dell’amico, offrendogli al contempo la possibilità di condividere con lui le sue disponibilità, ma oltre a queste finisce per condividere, suo malgrado, anche l'amore di una donna ormai scomparsa, la cui presenza non ha mai spesso di imperare su di loro.
L'azione rende il senso di ineluttabilità. Ci troviamo di fronte a un incontro inesorabile tra due sopravvissuti al loro tempo e tenacemente rimasti vivi, resistendo stoicamente in una bolla d’attesa.
Renato Carpentieri è un caposaldo del teatro italiano e anche il cinema tardivamente riconosce la sua grandezza nel 2018 attribuendogli un David di Donatello per l' interpretazione nel film “La tenerezza” di Gianni Amelio.
Il suo generale Henrik parla e si muove con fredda lucidità attraverso la quale striscia una rabbia mai sopita. Il Konrad di Jotti appare un uomo piegato dall'amarezza, contrito e affaticato.
Le braci” è un teatro di parola in cui la regia di Laura Angiulli, misurata e pertinente, viene ottimizzata dal disegno luci ben configurato di Stefano Accetta che esalta i momenti più salienti.
E' Henrik per lo più a parlare, l'amico lo ascolta e cerca di raccontare le sue verità, ma nulla svela, nemmeno quando il generale giunge a formulare la fatidica domanda che da quarant'anni gli rimbomba nel cuore.
La stanza diventa una gabbia entro la quale si annusano e si scrutano come due leoni, per poi riprendere posto sulle loro vecchie poltrone. Henrik lancia il suo attacco, Konrad incassa ma non cede.
Ora davanti al fuoco simbolico del caminetto, nel quale in un atto estremo Henrik brucia il diario della sua amata, l’animo umano troverà pace solo quando la brace diventerà cenere.
Non ci saranno vincitori né vinti in questa parabola del rancore e dei rimpianti, e la fine porterà solo alla consapevolezza che “la verità” ormai non ha più alcun senso.

Susy Suarez 

 LE BRACI 

di Sándor Márai
Con Renato Carpentieri e Stefano Jotti
Adattamento: Fulvio Calise 
Regia: Laura Angiulli 
Aiuto regia: Serena Sansoni

domenica 12 gennaio 2020

DITEGLI SEMPRE DI SI'-Regia di Roberto Andò




Ditegli sempre di sì” in scena al teatro Ambra Jovinelli dall’ 8 al 19 gennaio è uno dei primi successi firmato Eduardo De Filippo. Scritto nel 1925 Eduardo lo destinò, quale primo interprete, a Vincenzo Scarpetta. Col tempo tuttavia ci si affezionò molto e vi furono varie riproposizioni tra cui la meravigliosa versione televisiva del 1962. Il protagonista è Michele Murri, il quale dopo un anno d'assenza torna a casa della sorella. Michele non rientra da un lungo viaggio d’affari, come si vuol far credere agli amici e ai vicini, bensì da un anno passato in un manicomio e dimesso dopo essere stato considerato dal suo medico ufficialmente pronto alla riabilitazione nella vita quotidiana. Diagnosi che, col dipanarsi della vicenda, vedremo rivelarsi fallace. Roberto Andò sembra essere rimasto fedele all'impianto registico di De Filippo, allo stile e alla forma del teatro classico di tradizione napoletana, evitando tediose rivisitazioni o la ricerca forzata di scialbe originalità, e lo fa in maniera ineccepibile dal punto di vista formale. “Ditegli sempre di sì”, come tutte le fortunate opere di De Filippo, racconta la società italiana del novecento ponendo l’interesse focale sul nucleo familiare, il vero specchio della cultura napoletana, e attraverso il tema della follia offre una sagace analisi dell'assurdità dei comportamenti sociali.
In scena un cast numeroso di indubbia professionalità.
Il teatro di De Filippo si distingue per specifici caratteri e maniere, ovviamente intriso da un umorismo che si esprime attraverso la musicalità dell' inflessione e del dialetto napoletano, dialetto che ha i suoi tempi e i suoi equilibri, che sono quelli della verità, in questo caso però edulcorati in favore di una recitazione dai ritmi eccessivamente accelerati, dai toni farseschi e manieristici spinti troppo fuori dal seminato per una pièce di livello come questa. Questa scelta non aggiunge nulla all'opera, non la rende né più divertente né più agile, ma ne svilisce l'autenticità e la profonda attualità.
Il lato farsesco è solo parte dell'intreccio, ma in questo caso sembra si sia voluto conferire a tutti i personaggi un aspetto esasperatamente macchiettistico che li limita e li appiattisce.
Michele Murri è il perno della commedia, sia perché ne è il protagonista, sia perché il suo interprete, Gianfelice Imparato, al cinema, in tv o in teatro, riesce sempre ad attribuire ai suoi personaggi una speciale autenticità che gli appartiene, e in cui riverberano naturalmente le corde di Eduardo. Il suo Michele funziona: con le ingenuità, i balbettii, l'incedere incerto e buffo che inteneriscono e divertono allo stesso tempo. Michele prova a rapportarsi con gli altri secondo un proprio codice linguistico, cerca il ragionamento ossessivamente, prende tutto alla lettera, puntualizza ogni cosa che gli viene detta con una precisione maniacale. La pazzia di Michele appare come una forma patologica di innocenza, di purezza senza filtri che non può essere compresa all'interno dei meccanismi del vivere comune, fatto di convenzioni, ipocrisie, inganni, illogicità ed egoismi. Per questo involontariamente innesca una serie di fraintendimenti, equivoci e ironie sulle quali si impernia tutta la commedia.
Insieme a Michele a sostenere le scene più esilaranti e in fine anche più toccanti dell'opera è Luigi (Edoardo Sorgente), studente spiantato e fannullone che prova a fare l'artista con scarsi risultati. Sorgente spicca indubbiamente per l'incredibile energia con la quale cavalca la scena. Spassoso il momento in cui intorno al tavolo Luigi recita una poesia per far colpo sulla sua amata, di cui segretamente è innamorato anche Michele.
Eleganti e appropriate le scene e il disegno luci di Gianni Carluccio, dal salotto della casa della vedova Teresa Lo Giudice (Carolina Rosi) del primo atto, sino alla tavola da pranzo nella residenza di campagna dell'amico di famiglia Vincenzo Gallucci (Gianni Cannavacciuolo). Sarà qui infatti dove tutti si ritroveranno nel secondo atto e si compierà il sorprendente epilogo.
Michele si sente frustrato e fuori posto non riuscendo più a comprendere, e barcolla sul confine tra lo sragionare e il ragionare oltremodo, portandoci a considerare come in fondo la follia possa essere null'altro che una forma di eccessiva lucidità.
Poetico ed evocativo il quadro finale in cui tutti i personaggi indossano giacche e camicie bianche, citando il tipico abbigliamento dei malati mentali nei manicomi. In fondo come diceva Alda Merini: “Chi decide chi è normale? La normalità è un'invenzione di chi è privo di fantasia”.
Susy Suarez



DITEGLI SEMPRE DI SI’”
di Eduardo De Filippo
con (in ordine di apparizione) Carolina Rosi, Paola Fulciniti, Massimo De Matteo, Edoardo Sorgente, Vincenzo D'Amato, Gianfelice Imparato, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto, Viola Forestiero, Boris De Paola, Gianni Cannavacciuolo
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Francesca Livia Sartori
regia Roberto Andò
produzione Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo
Fondazione Teatro della Toscana