venerdì 1 novembre 2019

CHE FINE HANNO FATTO BETTE DAVIS E JOAN CRAWFORD? - Regia di Fabrizio Brancale

Per la prima volta in scena in Italia all'Off Off Theatre di Roma da martedì 22 a giovedì 31 ottobre “Che Fine Hanno Fatto Bette Davis e Joan Crawford?testo del commediografo francese Jean Marboeuf. Ciò grazie alla caparbietà di Riccardo Castagnari che ne ha curato la traduzione e ha avuto il coraggio e l'intuizione di riproporlo in una veste assolutamente inedita. Cinquantacinque anni fa Joan Crawford Bette Davis erano attrici di fama mondiale raccontate dalla stampa scandalistica sempre l'una contro l'altra. In una scenografia che richiama i polverosi camerini di un tempo, tra ciprie, bauli e impietosi specchi, Bette Davis (Gianni De Feo) e Joan Crawford (Riccardo Castagnari) ci raccontano la popolare storia della loro rivalità. Schermaglie, epiteti poco lusinghieri e battute al vetriolo in punta di fioretto, sono il fil rouge di questa pièce in cui sono due interpreti maschili a vestire i panni delle dive di Hollywood, così diverse tra loro ma accomunate da un reciproco e feroce odio. Che fine ha fatto Baby Jane?”,   il film diretto da Robert Aldrich nel 1962,  le portò a recitare per la prima volta insieme, e quel set si trasformò presto nel ring perfetto su cui consumare una lotta all'ultimo sangue tra ingiurie e ripicche. Contro ogni previsione il film ottenne un enorme successo in tutto il mondo e permise alla carriera di entrambe di avere un ennesimo slancio. Bette Davis fu persino candidata all'Oscar, ma a questo punto Joan lanciò una campagna contro di lei riuscendo non solo a boicottare la rivale ma a convincere Anne Bancroft, la vincitrice dell'Oscar di quell'anno, a farsi sostituire sul palco e a ritirare il premio per lei.

La cifra stilistica dello spettacolo è netta e ben definita e punta all'eccesso, all'intensità delle movenze e alla rutilanza del trucco, del parrucco e dei numerosi e ammalianti costumi. Le musiche originali di Francesco Verdinelli supportano e infondono poetica ai passaggi più emotivi. 
La regia di Fabrizio Brancale riesce ad amalgamare con acume ogni elemento, comprese le personalità di due artisti di talento dalla presenza scenica e dalla vocalità molto diversa, proprio come lo erano quelle della bellissima Joan e della bruttina, ma magnetica Bette. Joan Crawford aveva effettivamente la metà del talento espressivo di Bette ma, a differenza della sua odiata collega,  possedeva quel fascino languido e allo stesso tempo impenetrabile che mandava gli uomini dell'epoca letteralmente in delirio.
Suggestive e funzionali le immagini di repertorio che, proiettate sullo sfondo della scena, si frappongono all'azione trascinando lo spettatore nel backstage dei set dell'epoca o alla famosa notte degli Oscar in cui Bette Davis riuscì a far trionfare le sue smanie di protagonismo.
Riccardo Castagnari è già noto al pubblico soprattutto per lo strepitoso successo della sua pièce su Marlene Dietrich portata in scena sia in Italia che all'estero per ben diciotto anni in cui egli stesso interpreta la mitica diva.
Cimentandosi ancora una volta con un ruolo femminile, un'ennesima star, riesce nel non semplice compito di rivoluzionarsi senza ripetersi. Sostenuto sicuramente da un lavoro di studio scrupoloso offre una Joan Crawford inedita affrescandola secondo la sua personalità artistica senza snaturarne il ritratto rimasto impresso nell'immaginario collettivo.
Gianni De Feo, al contrario di Castagnari, si cimenta per la prima volta nell'interpretazione di un personaggio femminile, ma professionalità, esplorazione e ricerca, lo rendono altrettanto all'altezza del ruolo.

Entrambi rendono palpabile l'amore/odio che univa indissolubilmente le due donne, le invidie e i livori che sfioravano la nevrosi e che col tempo crearono una paradossale dipendenza, come se l'una non potesse più vivere senza le provocazioni dell'altra.  “Che Fine Hanno Fatto Bette Davis e Joan Crawford?” immerge lo spettatore in uno spaccato della storia del cinema, raccontando quel divismo di un tempo che ormai non esiste più ma che  coinvolge sempre con magnetico incanto.
Susy Suarez


Dal 22 al 31 ottobre 2019
OFF OFF THEATRE

CHE FINE HANNO FATTO BETTE DAVIS E JOAN CRAWFORD?

di Jean Marboeuf
traduzione Riccardo Castagnari
con
Gianni De Feo
Riccardo Castagnari
regia
Fabrizio Bancale
Scene Roberto RInaldi
musiche originali Francesco Verdinelli
assistente alla regia Sebastiano Di Martino
disegno luci Alessio Pascale
ufficio stampa Carla Fabi Roberta Savona

venerdì 25 ottobre 2019

STRIKE - Regia di Gianni Corsi


Stike” vede la sua genesi nel Laboratorio di Arti Sceniche diretto da Massimiliano Bruno in cui tre giovani interpreti, studiando e allenandosi su delle scene scritte da loro, hanno pensato di sviluppare una vera e propria pièce. Già messa in scena nel 2018 con un ottimo riscontro di pubblico, torna quest'anno in cartellone al Teatro De'Servi dal 18 ottobre al 3 novembre. “Strike” è prima di tutto la storia di una ricerca di riscatto più umano che sociale. Parla di amicizia, della voglia di riuscire ad amare, di solidarietà tra coetanei, desiderio di abbracciare ed essere abbracciati. Tre ragazzi molto diversi tra loro ma accomunati nella loro personale lotta generazionale contro la solitudine dell'anima. Tra delusioni d'amore, padri assenti, famiglie sgangherate, la loro amicizia diventa un'ancora da gettare nel mare di desolazione del cortile del Sert di una periferia romana. Tutta l'azione infatti, si svolge proprio di fronte lo sportello di questo servizio sanitario pubblico per tossicodipendenze nel quale Pietro (Giovanni Nasta) si ritrova, quasi per caso, avendo commesso una piccola bravata. E' qui che incontra Dante (Gabriele Berti), un ragazzo di buona famiglia, laureando in psicologia buffo e imbranato che si trova lì per svolgere il suo tirocinio da psicologo. Nonostante i diversi background sociali e culturali, i due ragazzi, tra una sigaretta e una scommessa ai cavalli, stringono un'insolita amicizia. In seguito Tiziano (Diego Tricarico) fa la sua comparsa nel cortiletto del Sert. Sulle prime introverso e sfuggente, troverà il coraggio di confessare ai nuovi amici la sua amara storia. Gabriele Berti, Diego Tricarico e Giovanni Nasta riescono a far ridere con una spontaneità tutta loro che li rende brillanti senza mai alcuna forzatura, dimostrando una buona maturità interpretativa nonostante la giovane età. Tre interpreti i quali uniscono al talento un istinto evidentemente non appesantito dalle sovrastrutture formali che molti attori rischiano di acquisire con il tempo e che, fungendo da filtro verso la realtà, sono spesso un evidente impedimento psicofisico. Di certo il fatto di aver ideato e scritto il testo di loro pugno concorre alla tenuta di ritmi perfetti e al grande affiatamento che si percepisce, guidato in maniera ottimale dalla regia di Gianni Corsi sotto la direzione artistica di Massimiliano Bruno. Essendo uno spettacolo in cui la struttura drammaturgica si rende protagonista assoluta, una buona direzione attori diventa essenziale. “Strike” è una commedia scritta e interpretata da giovani che parla di giovani con un linguaggio giovane (si citano Instagram, Facebook, influencers, si canta musica rap e si utilizzano espressioni gergali e senza filtri) ma che possono e dovrebbero vedere tutti, a tutte le età, perché apre una speranza nei rapporti umani, nella famiglia, nell'amicizia, nella solidarietà generazionale, ma senza moralismi. Generosità e forza interiore servono per farsi avanti quando comprendiamo che tocca a noi, che è il nostro turno di prendere la palla, mirare e fare Strike.
Susy Suarez





lunedì 21 ottobre 2019

GIOVANNA DARK- Regia di Matteo Fasanella


Giovanna Dark in scena al teatro Stanze Segrete dal 10 ottobre al 3 novembre per la regia di Matteo Fasanella, riprende fedelmente la storia mista a leggenda di Giovanna D'Arco, la “pulzella d'Orleans”, giovanissima contadina che si presentò alla corte del futuro Carlo VII di Francia, chiedendogli di mettersi a capo dell’esercito francese per cacciare definitivamente gli Inglesi.
Le vicissitudini della santa sono ormai note a tutti grazie soprattutto alle numerose trasposizioni cinematografiche (tra le più celebri quella del '48 diretta da Victor Fleming con Ingrid Bergman e la più recente del '99 diretta da Luc Besson interpretata da Milla Jovovich).
Nonostante la storia di Giovanna (che decenni dopo la morte è stata liberata dell’infamante accusa di eresia) abbia ispirato e ispiri anche numerose riletture in chiave moderna, Fasanella resta fedele all'impianto originale offrendoci un adattamento in costume classico e pulito, dedicandosi anche a una ricostruzione storica e politica per contestualizzare il personaggio nella sua epoca, permettendo così allo spettatore di comprendere come sia stata possibile l’ascesa di una ragazza del popolo ai più alti ranghi dell’esercito. Il 29 Aprile 1429, Giovanna d’Arco al comando di circa quattromila uomini arrivò nei pressi di Orléans tentando di scacciare gli inglesi che avevano intrapreso l’assedio della città. Il 9 maggio i francesi potevano esultare per la vittoria conseguita grazie ad una ragazzina di diciassette anni.
Non si tratta di una semplice lezione morale. Giovanna è anzitutto il segno di come l'impossibile possa farsi possibile.
Efficace la riduzione che vede fondersi elementi della sceneggiatura Birkin/Besson del film del '99 all'opera teatrale di George Bernard Shaw datata 1923.
La cura dei costumi, delle musiche e degli effetti sonori, riesce a ricreare, in uno spazio scenico inusuale ed esiguo come quello del Teatro Stanze Segrete, atmosfere a tratti esoteriche che accompagnano lo spettatore indietro nei secoli, a dimostrazione che anche uno spazio limitato possa non esser limitante quando si hanno delle buone intuizioni registiche.
La Giovanna D'Arco di Virna Zorzan è una ragazzina all'apparenza fragile dallo sguardo ora vacuo ed estatico, ora risoluto e selvaggio. Come indemoniata nella sua fervida passione, nel suo sentirsi messaggera di Dio, ci presenta un personaggio che non è un uomo, né ancora una donna.
Impeccabile Giuseppe Renzo che propone con talento e mestiere un delfino di Francia elegante; ora mite e bonario, ora ebbro di un potere e una vanità senza scrupoli. Perfettamente calibrata al suo fianco Maurizia Grossi nei panni della fida sorella, la quale nasconde dietro melliflui sorrisi calcolo e cinismo.
Interessante la presenza scenica dei due attori più giovani, i quali interpretano i due personaggi più coerenti e fedeli a loro stessi nell'arco della narrazione: il capitano Gilles de Rais (Alessandro Onorati) sempre diffidente e aggressivo nei confronti di Giovanna, e Jean d'Aulon (Valerio Rosati) leale fino alla devozione.
Alla fine, quando Giovanna sarà messa sotto processo, persino la fede vacillerà in un "dibattito" con la sua coscienza (Matteo Fasanella) nella ripresa di una delle scene più celebri ed emotive del film di Besson. Ecco che qui la parte più “dark” della pulzella emerge, la inquisisce e la tormenta all'interno della sua cella. Essa è quell'ego corrotto e oscuro che può portarci a dubitare persino di noi stessi e della natura delle nostre decisioni all'apparenza più nobili.
Così la Pulzella d'Orléans rivive nella nostra epoca, emblema di tutti gli uomini e le donne che ascoltano la propria voce e non hanno paura.
SUSY SUAREZ 

GIOVANNA DARK

Da Andrew Birkin – Luc Besson – G.B. Shaw
Con Virna Zorzan, Giuseppe Renzo, Maurizia Grossi, Alessandro Onorati, Valerio Rosati, Matteo Fasanella
e con Edoardo Sala
Regia Matteo Fasanella

lunedì 3 giugno 2019

FAMIGLIA - Regia di Valentina Esposito



Torna in scena dal 30 maggio al 2 giugno “Famiglia”, spettacolo scritto e diretto da Valentina Esposito e che vede cimentarsi sulle tavole del palcoscenico ex detenuti del carcere di Rebibbia. Valentina Esposito infatti proviene da anni di esperienza come educatrice nell'ambiente carcerario ed è fondatrice della Compagnia permanente Fort Apache, le cui attività abbracciano sia il teatro che il cinema.
Famiglia” è un dramma collettivo che cerca di mettere in luce quelli che sono gli atavici conflitti familiari e culturali. Dissidi irrisolti e sotterranei che spesso, come nodi karmici, si ripetono di generazione in generazione.
Come spesso accade è proprio un momento di festa, in questo caso il matrimonio di una figlia, l'occasione in cui l'aggregazione forzata scatena il confronto tra consanguinei.
Vivi e morti si fronteggiano in una feroce resa dei conti, tra ricordi amari, sentimenti inespressi, invidie, rancori taciuti, i sensi di colpa che diventano veleno per chi li prova e per chi vorremmo invece amare. Il passato incombe come un'ombra che rende invisibile il presente.
L'allestimento è composto da pochi e funzionali elementi che rendono i cambi scena (gestiti dagli stessi attori), rapidi e fluidi. Raffinati i costumi, sia quelli d'epoca indosso ai “fantasmi del passato” che gli eleganti completi da cerimonia e il vestito da sposa il cui lungo strascico di tulle “riempie” la tavola del banchetto nuziale.
Giusta la scelta di un disegno luci tenue, che crea un effetto sepolcrale su una circostanza che dovrebbe essere di festa, sottolineando il parallelo tra la cerimonia nuziale e quella funebre.
Spettacolo corale che vede tra i tredici elementi della nutrita compagnia anche Marcello Fonte il quale, proprio unendosi ad essa per un caso fortuito, ha iniziato a muovere i primi passi nel mondo attoriale finendo col giungere al fortunato incontro con Matteo Garrone.
Un testo la cui stesura ha visto l'apporto personale di tutti gli interpreti, i quali hanno avuto la possibilità di arricchirlo dando voce a le loro esperienze di vita.
Il teatro si fa strumento di riflessione e di rielaborazione del proprio passato e di conseguenza del proprio presente e del proprio futuro. Per questo “Famiglia” è una pièce che va vista e analizzata nell'ottica di un teatro sociale volto a proiettare l'ex detenuto verso una maggiore consapevolezza e ad intraprendere un percorso di evoluzione umana. Forse è proprio questo passaggio dalla realtà alla finzione, il sottile confine tra l'urgenza di rappresentarsi e di rappresentare, a tirar fuori da questi “non attori” una forza interpretativa capace di emozionarci, nonostante le evidenti mancanze tecniche. Apprezzabile, per cui, il di certo non semplice lavoro di regia, che in questo caso comporta non solo un lavoro tecnico e professionale ma anche la necessaria capacità di instaurare un rapporto più profondo e umano con i proprio interpreti. Ecco che sorvolando sui giustificabili e comprensibili difetti, apprezzeremo l'impegno e la passione che uniscono uomini e donne i quali, attraverso un' arte meravigliosa, si aggregano per tornare in contatto con loro stessi.
Susy Suarez 



FAMIGLIA
di Valentina Esposito
con Alessandro Bernardini, Christian Cavorso, Chiara Cavalieri, Matteo Cateni, Viola Centi, Marcello Fonte, Alessandro Forcinelli, Gabriella Indolfi, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi, Cristina Vagnoli







martedì 21 maggio 2019

SPOGLIA-TOY-Regia di Luciano Melchionna



In scena dal 16 al 26 maggio al teatro Piccolo Eliseo di Roma “Spoglia-Toy” è la nuova opera teatrale firmata da Luciano Melchionna il quale continua, dopo il grande successo di “Dignità autonome di prostituzione”, a offrire al pubblico più che una semplice messa in scena, una vera e propria esperienza unica. Scardinando infatti le convenzioni del rapporto tra spazio scenico e spettatore, la relazione tra l'attore e i suoi uditori, e strappando questi dalle consuete comode poltrone di velluto, accompagna il pubblico in un viaggio assieme agli stessi performers, esplorando così nuove possibilità di interazione con lo spazio teatrale e nuove modalità di percepire un'opera drammaturgica. In questo “Spoglia-Toy” Melchionna reinventa il concetto base di spettacolo itinerante in una chiave totalmente diversa e innovativa. Undici calciatori e un mister, uno spogliatoio prima di una grande e decisiva partita in cui aleggia odore di sudore, di adrenalina. Il pubblico vi viene condotto passando attraverso un buio tunnel sulle cui pareti, come delle installazioni di una galleria d’arte moderna, scorrono grandi ritratti in bianco e nero dei protagonisti. Una musica tecno, incalzante e ansiogena, “sospinge” gli spettatori in questo primo spazio scenico in cui ritroviamo i calciatori, come in ogni spogliatoio che si rispetti, in accappatoio o coperti solo da un asciugamano in vita i quali attendono con fibrillazione di entrare in campo. Ci sediamo lì, intorno a loro, a osservare quel rito collettivo celebrato dal Mister che, come un truce comandante, incita i suoi guerrieri prima di scendere in battaglia esortandoli con un monologo intenso e appassionato. Si rivolge ai suoi pupilli, calciatori talentuosi, tra gli uomini più famosi, ricchi e di successo, divenuti ormai icone nell'immaginario collettivo. Il Mister li sferza con parole talora aggressive, canzonatorie e feroci, parole che si rivelano sottile disamina sul bieco e tracotante macismo che caratterizza determinati ambienti, ma anche sui suoi luoghi comuni e sui quei milioni di assatanati di nulla che riempiono gli stadi e che, idolatrando i giocatori come semidei, trasformano il gioco del calcio nello “sfogo” del calcio.Un numero viene assegnato a caso al botteghino ad ogni spettatore. Sarà il numero del calciatore che sarà chiamato a seguire dopo questa prima introduzione, passando a una dimensione ancor più raccolta in cui il personaggio “calciatore” si umanizza e nell'intimità del suo spogliatoio personale si mette concretamente a nudo offrendoci uno spicchio della sua vita, della sua anima. Undici attori, undici calciatori, undici storie. Perché anche i calciatori hanno la propria storia, la propria sensibilità, nonostante i luoghi comuni li raffigurino perlopiù ignoranti, rozzi, illetterati, esaltati, viziati e strapagati. Molto spesso, infatti, dietro la vanagloria di questi moderni gladiatori, scagliati nell'arena in pasto al pubblico adorante, si celano esperienze di vita molto dure, background culturali e sociali al limite: disagio, fragilità, desiderio di riscatto. Un solo monologo, un solo calciatore per ogni spettatore, il che lascia inevitabilmente col desiderio di infilarci in spogliatoi diversi, con la curiosità di vedere e sentire “spogliarsi” anche gli altri, carpirne le confidenze, ma forse è anche proprio questo senso di casualità la parte interessante dello show. Potrà accadere, come successo a me, di finire nello spogliatoio del giovane “calciatore” Agostino Pannone che racconta di un padre che non ha mai creduto in lui, del suo desiderio di fuga da una vita mediocre, dalle parole sminuenti e scoraggianti di un genitore che ha fatto crescere il figlio nel disamore. E anche adesso che il padre è ormai morente, il ragazzo al di lui capezzale, gli sbatte in faccia la sua vittoria con un sadismo quasi amaro e vendicativo dietro cui vibra un abisso di profondo dolore e delusione. Sicuramente a suo agio dall'uso del proprio dialetto d'origine (in questo caso drammaturgicamente giustificato), il giovane attore napoletano riesce a renderci con generosità tutta l'intimità della sua confessione. La forza del suo sguardo aggancia gli astanti trasfondendo loro tutta l'intensità e la rabbia dolente che scorre dietro ogni sua parola. Esercizio non semplice per un interprete, anche il più scafato, recitare in uno spazio così angusto, letteralmente a pochi centimetri dagli spettatori, tanto da riuscirne a cogliere ogni respiro, ogni minimo movimento, ma conservando la concentrazione senza mai perdere l'attitudine emotiva del personaggio. Tutto è orchestrato affinché gli undici monologhi inizino e finiscano quasi all'unisono così da permettere al pubblico di riunirsi di nuovo insieme sul finale, e condotto ad accomodarsi in platea. Ma il sipario rimane chiuso, i ragazzi si muovono intorno alle fila di poltrone urlando, come a incitarsi vicendevolmente, frasi celebri legate al mondo del calcio. Citazioni di letterati, filosofi, artisti, politici, storici, cantanti, a dimostrazione di come questa forma di frenesia collettiva permei ormai la nostra cultura da generazioni. Ipnotica e affascinante la coreografia, che gli interpreti eseguono distribuiti lungo le scalinate ai lati della platea, dal sapore di una danza tribale. Poi finalmente il sipario si apre e su un piedistallo, che ricorda quello delle sculture sacre, nascosta dietro una mostruosa maschera da vitello, irrompe in scena un essere dalle fattezze femminili. La creatura si presenta come “SS”, ovvero “Società Stessa”. Lei è quel “Vitello d'oro” che nella mitologia sacra fu il “falso” idolo fabbricato da Aronne per soddisfare gli ebrei durante l'assenza di Mosè, quando questi ascese al Monte Sinai. Ma in questo caso rappresenta l’animalesca incarnazione di tutte le contraddizioni dell'animo umano: debolezze, corruzioni, follia e quell’insensato fanatismo che tenta di colmare ogni vacuo abisso interiore. Nel suo lungo monologo, col vigore di un politico da comizio in pubblica arringa, vomita caustica e veloce la sua apologia del nulla, l' esaltazione dei mezzi di comunicazione di massa i quali hanno delineato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Un edonismo neo-laico ciecamente dimentico di ogni valore umanistico. Allo stregua in cui le divinità religiose del passato simboleggiavano le priorità assolute dell’esistenza, oggi i calciatori ne rappresentano infatti le divinità terrene di un culto ormai secolarizzato; i totem sacri e inviolabili per quelle vaste moltitudini di persone ormai espropriate di autentici valori spirituali. Ottima la scelta dei costumi. I calciatori, uno ad uno, indossano la loro divisa da semidei: pantaloncini e maglietta d'oro con una grossa catena al collo. D'effetto anche il vestito in lattice trasparente della dea, che richiama l'involucro di un prodotto confezionato. La drammaturgia è densa di contenuti e uno spettatore attento e riflessivo riuscirà a coglierne tutte le provocatorie sfumature. Nella sua scrittura Melchionna, in questo caso coadiuvato da quella di Giovanni Franci, riesce sempre a dosare un'istanza filosofico-intellettualistica con una vena di pungente ironia, giocando a divertirsi col grottesco e divenendo così fruibile sia a un pubblico meno sensibile, sia a uno più arguto e recettivo che saprà certamente coglierne tutti i sottili simbolismi. Spettacolo itinerante? Performance? Teatro sperimentale? Perché voler a tutti i costi etichettare una rappresentazione drammaturgica così potente che fa divertire, entusiasmare, incuriosire, e che così efficacemente ci scuote nella sua dimensione estetica e formale.
Susy Suarez 


SPOGLIA-TOY 



Testi di Luciano Melchionna e Giovanni Franci
Con
Lorenzo Balducci, Orazio Caputo,
Mauro F. Cardinali, Gennaro Di Colandrea,
Adelaide Di Bitonto, Emanuele Gabrieli,
Sebastiano Gavasso, Pierre Jacquemin, Gianluca Merolli, FabrizioNevola, Roberto Oliveri, Marcello Paesano, Agostino Pannone
Costumi Milla
Scene Chiara Carnevale
Musiche a cura di Riccardo Regoli
Installazioni fotografiche Mario Pellegrino
Assistente alla regia Sara Esposito
Consulenza sportiva Sebastiano Gavasso
Produzione Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro






lunedì 15 aprile 2019

OVVI DESTINI - Regia di Filippo Gili


In scena al Teatro Brancaccino dall'11 al 21 aprile, “Ovvi destini” la nuova opera drammaturgica firmata da Filippo Gili che ancora una volta, fedele alla sua cifra stilistica, ci introduce a un'intimità familiare su cui pesa qualcosa di profondamente tragico e amaramente ancestrale. Chiamare quelle di Gili semplicemente “tragedie familiari” sarebbe superficiale e riduttivo. I suoi lavori aprono uno squarcio sull'incoerenza e la feroce ironia della condizione umana, sulla parte oscura che alberga in ognuno di noi e che può venir fuori anche e soprattutto quando vengono chiamati in causa legami carnali come quelli familiari. Nel caso di “Ovvi Destini” le protagoniste sono tre sorelle. La minore (Daniela Marra) paraplegica è costretta su una sedia a rotelle, un'altra appare più consapevole e protettiva (Anna Ferzetti), e la terza (Vanessa Scalera)affetta dalla malattia del gioco d'azzardo è, tragedia nella tragedia, erosa da un senso di colpa, un segreto nascosto che la comparsa di un uomo misterioso (Pier Giorgio Bellocchio) riporterà alla luce. Chi è realmente costui che si palesa come un sinistro “genio della lampada”? Una creatura del male, un untuoso ricattatore come può apparire all'inizio, o in fin dei conti una voce della coscienza giunta ad offrire un'irripetibile possibilità di redenzione? Molteplici le interpretazioni per questa pièce che gioca su diversi livelli psicologici e metaforici. L'allestimento è semplice e funzionale: una libreria, un divano e altri pochi elementi scenici. L'azione si svolge tutta in un unico interno al centro del quale, elemento ricorrente nelle opere di Gili, la tavola da pranzo simbolo dell'intimità domestica intorno cui ci si incontra e scontra senza esclusione di colpi. Sia nella scrittura che nel registro interpretativo è tutto misurato in modo che anche i fattori più inverosimili riescono a non apparirci poi così tali. Due sorelle chiamate dalla disperazione a credere nell'incredibile, avvinte così nel gioco sadico di scelte impossibili. Ancora una volta Gili gioca a rimestare là dove pochi osano, nel fascino sinistro del senso del tragico portato al suo parossismo. La morte, la sofferenza, gli istinti primordiali e quell'ego che, travalicando la nostra coscienza, ci porta a compiere scelte apparentemente atroci al cospetto della ragione e del cuore.
E' soprattutto grazie all'interpretazione asciutta e di ottimo livello di tutti e quattro gli interpreti che lo spettatore assimila e rivive con le protagoniste quel travaglio di scelte difficili anche solo da concepire, e a ragionare su quelli che sono i propri impulsi, i propri lati oscuri, le proprie torbidezze e piccoli grandi egoismi. Un'intensa prova teatrale che ci racconta come l'inconscio può rivelarsi un feroce dittatore e che il destino, in fondo, non è sempre poi così ovvio.
Susy Suarez 


OVVI DESTINI

con
Pier Giorgio Bellocchio, Anna Ferzetti, Daniela Marra, Vanessa Scalera

FOTO Luana Belli GRAFICA Elena Ciciani
VIDEO David Melani
UFFICIO STAMPA Rocchina Ceglia
DISTRIBUZIONE Stefano Pironti
ORGANIZZAZIONE Giancarlo Nicoletti - Cinzia Storari
SCENE E COSTUMI Alessandra De Angelis – Giulio Villaggio
DISEGNO LUCI Giuseppe Filipponio
MUSICHE Paolo Vivaldi
AIUTO REGIA Flavia Rossi

con il sostegno di Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Regia di Filippo Gili
Produzione di Altra Scena & Argot Produzioni










domenica 24 marzo 2019

ZERO - di e con Massimiliano Bruno - Regia di Furio Andreotti



In scena al Piccolo Eliseo dal 22 al 31 marzo “Zero” scritto e interpretato da Massimiliano Bruno. Definirlo semplicemente un monologo teatrale non renderebbe giustizia a questo ottimo pezzo di drammaturgia contemporanea che rispecchia perfettamente quella che è la cifra stilistica del suo autore, fatta di quell'ironia sempre arguta e brillante di chi riesce a essere leggero ma senza grossolanità, profondo ma senza retorica, che bandisce ogni tipo di volgarità, anche lì dove il linguaggio si fa più diretto. Nonostante Bruno sia da solo in scena per novanta minuti, “Zero” si può definire uno spettacolo corale tanta è la forza evocativa con la quale materializza uno ad uno una galleria di personaggi con la sola efficacia della parola e della presenza scenica, giocando con dialetti differenti, cadenze, posture, gestualità.
I protagonisti sono cinque amici d'infanzia, ormai adulti, ma che non hanno mai imparato a convivere col dolore e la rabbia per la tragedia che li accomuna in un'insana voglia di vendetta. Bruno tesse le fila della narrazione che si dipana lentamente in un crescendo che lascia gli spettatori avvinti nella brama di capire quale sia il fil rouge che lega personaggi così differenti tra loro per estrazione, personalità, cultura e provenienza. Bruno passa da un personaggio all'altro con disinvoltura; nei suoi occhi a tratti scintilla l'euforia, naviga il dolore, traspare l'ironia, sfolgora la malvagità, in un perfetto connubio tra padronanza del mestiere, cuore e generosità.
L'allestimento di Alessandro Chiti è raffinato e funzionale. Il palco è diviso in due nella sua lunghezza da un pannello adorno di figure stilizzate che ricordano i tratti della street art, le quali diventano più o meno distinguibili a seconda dei colori e dei giochi di luce. Dietro di esso si intravedono i componenti della band che dal vivo scandiscono i tempi e le atmosfere della narrazione con eleganza e precisione.
Disposte lungo il palco solo cinque sedie con al centro il “trono” dell'onorevole Rizzo, un uomo malvagio, grottesco e volgare, tutt'altro che inverosimile ritratto di molti uomini di potere, intorno al quale il cerchio si chiude.
Sarà la magia immaginifica del teatro a trasformare quelle semplici sedie, prima in una stazione di polizia, poi nell'interno di una macchina, in un'elegante villa o in uno strapiombo sul mare di notte.
Zero” è un teatro di parola, affidato unicamente alla capacità dell'interprete di sostenere i suoi personaggi fino alla fine e di trasmettere e creare suggestioni, immagini, emozioni.
La regia di Furio Andreotti sembra essere orientata su una buona comunicazione con l'attore in modo da canalizzare al meglio le sue attitudini, insieme a un ottimo lavoro di squadra.
Un Massimiliano Bruno da togliere il fiato per la forza interpretativa, talento e l'indubbio mestiere di chi proviene da una lunga gavetta teatrale iniziata sin da giovanissimo, dimostrando come anche dopo anni di assenza dalle scene (questo è il suo primo spettacolo dopo ben dieci anni lontano dalle tavole del palcoscenico) il fuoco di un bravo attore sia incapace di spegnersi.
Ciò che resta è lo sdegno di fronte alla corruzione e alle dinamiche prevaricatrici di una politica marcia, gretta e senza scrupoli che ben conosciamo e che troppo spesso resta impunita, la cui tracotante arroganza riesce a percepire il prossimo solo come uno “zero”. Importante e significativo l'accenno al caso Cucchi e la condotta violenta e immorale che talvolta vige anche tra le forze dell'ordine. Il pubblico resta in bilico tra risate, atterrimento e la commozione nel vivere la storia di queste differenti umanità, il cui apogeo si manifesta in un abbraccio collettivo nel quale i cinque amici si stringono. Un intreccio d'amore, dolore ed estenuato abbandono, fino ad arrivare a un finale che strizza il cuore e strappa applausi di gratitudine.

ZERO 

Scritto e interpretato da: Massimiliano Bruno
Regia: Furio Andreotti
Chitarra e basso: Massimo Giangrande
Piano rodhes e moog: Andrea Biagioli
Violoncello: Fabrizia Pandimiglio
Batteria e percussioni: Augusto Zanonzini
Fonico audio: Sante Di Clemente
Musiche di: Massimo Giangrande
Scene: Alessandro Chiti 

Costumi: Alberto Moretti
Assistente alla Regia: Susan El Sawi

Produzione: Corte Arcana | Isola trovata