lunedì 26 ottobre 2020

DE RERUM NATURA - di Roberto Herlitzka - a cura di Antonio Calenda


Dal
22 al 25 ottobre al Teatro Basilica, Roberto Herlitzka porta in scena il “suo” De rerum natura, performance curata da Antonio Calenda e sostenuta dal Gruppo della CretaI più sapranno che il “De rerum natura”, anche solo scavando tra le memorie scolastiche, è un poema epico-filosofico di Tito Lucrezio Caro, poeta e filosofo romano del I secolo a.c., poema che Roberto Herlitzka ha deciso di fare “suo” realizzando una personale traduzione del testo in versi e terzine dantesche. Ciò perché Herlitzka, oltre ad essere uno degli interpreti più potenti e duttili del nostro tempo, è anche un uomo di profonda cultura che ha nutrito da sempre una grande passione per la poesia e in particolare per l'opera di Dante. Ed ecco nascere la decisione di tradurre per diletto, durante le pause tra un lavoro e un altro, il testo di Lucrezio, proprio nel linguaggio del sommo poeta, e forse nemmeno lui poteva prevedere in corso d'opera, che ne sarebbe venuto fuori un componimento di inedita raffinatezza ed eleganza. Herlizka entra in scena con la difficoltà dovuta alla sua ormai fragile costituzione. Aiutandosi con una stampella e appoggiandosi al braccio di un'assistente, dal proscenio giunge a posizionarsi sulla sedia al centro del palco. Davanti a sé un microfono e un leggio. L'impianto è tutto qui, semplice e pulito. A preludio si diffonde un pezzo di musica classica, le luci si abbassano e un gioco di ombre incide i suoi tratti così unici, scolpendo quella inconfondibile maschera mutevole e penetrante che lo ha sempre caratterizzato e nella quale oggi si dipinge la tempra che non cede al passo del tempo. Ciò si avvalora non appena proferisce il primo verso e il “reading” ha inizio. Sorprende proprio questa dicotomia così lampante tra la fragilità del corpo vissuto di un uomo di ottantatré anni e la potenza limpida e intatta del suo sacro fuoco, inattaccabile dal tempo e dagli affanni fisici. Un attimo prima vediamo entrare in scena un uomo gracile dal fare claudicante e incerto, e un momento dopo ci troviamo dinnanzi un gigante che come un sapiente direttore d'orchestra, con l'uso discreto del movimento delle mani e le mutazioni della mimica, accompagna l'armonia e il ritmo dei versi che inebriano proprio come motivi musicali. In questo poema Tito Lucrezio Caro si fa portavoce delle teorie epicuree riguardo la realtà della natura e al ruolo dell'uomo nell'universo. Analizza il movimento degli atomi da cui hanno origine i fenomeni naturali, la struttura delle cose, ma viene narrato anche l’eros con inusuale ironia. Tecnicamente questo spettacolo potrebbe essere definito un “reading”, ma in questo caso tale definizione sarebbe inesatta e mortificante rispetto alla reale essenza della performance. Mai per un attimo si percepisce “l'esercizio del leggere” o l'esecuzione di quella “lettura interpretata” che si avverte inevitabilmente in qualsivoglia reading teatrale. Non c'è mai alcuna meccanica o retorica ma solo un'organicità salda e uniforme in quasi un'ora di versi incessanti. Nonostante il lessico spesso ostico, non incline ad essere compreso, è proprio la precisione dell'armonia vocale, vibrante di verità, che porta a restare sempre in ascolto e non perdere il senso di ciò che viene trattato. Ne è testimone una platea muta per l’incanto, e gli scroscianti applausi finali che Herlizka accoglie con commozione. Herlizka non è un semplice attore ma un atleta del cuore, e la reverenza che gli si tributa non è banalmente legata solo alla sua età e alla lunga carriera costellata di lavori di valore. Egli è l'emblema del vero artista e uomo di cultura che la potenza e l'onestà del proprio talento rende invincibile.
Susy Suarez 

22 | 25 ottobre ore 21.00

TeatroBasilica

DE RERUM NATURA

di Lucrezio

con Roberto Herlitzka

traduzione di Roberto Herlitzka

a cura di Antonio Calenda

sostenuto dal Gruppo della Creta






giovedì 15 ottobre 2020

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO - Gabriele Lavia



Gabriele Lavia
è stato protagonista della serata evento tenutasi il 13 ottobre al Teatro Basilica nell'ambito della sezione “Frammenti”. La sezione propone una serie di spettacoli ed eventi speciali in attesa della nuova stagione che riprenderà a gennaio e che è stata “frammentata” purtroppo, dalla brusca interruzione causata dall'emergenza sanitaria.Frammenti” apre la strada alla ripresa e al rilancio di un gioiello nel panorama degli spazi teatrali romani ed è prezioso il coraggio e la resistenza di chi continua a lavorare per non abbandonarli al declino. Ne è testimone il pubblico numeroso ed entusiasta che, collocato in sala seguendo le norme del distanziamento vigenti, ha potuto godere dell'incomparabile magia di quel rito collettivo che è il teatro. 
Lavia riporta in scena quel che è ormai uno dei suoi cavalli di battaglia, il monologo Il Sogno Di Un Uomo Ridicolo” un racconto di Fëdor Dostoevskij scritto nel 1876 a cui il celebre interprete è sempre stato particolarmente legato, come egli stesso spiega nella breve introduzione con la quale si presenta al pubblico. Con modi semplici e destrutturati, evoca piccoli aneddoti sulla vita e la personalità dell'autore e filosofo russo, lasciando evincere anche un più stretto sentimento di comunanza d'animo con esso, per poi, con grazia e disinvoltura, entrare in parte. L'uomo ridicolo ci si palesa e ci guida attraverso la sua straordinaria esperienza. Nessun orpello scenico, nessun costume. La minimizzazione del tutto per parlare del tutto. 
Lavia si dona con prodigalità e il suo indubbio carisma e la proverbiale forte personalità, restano equilibratamente al servizio della narrazione, senza sovrastarla in alcun modo, anzi, sostenendo e valorizzando al massimo la parola di un autore che con la scrittura riusciva a radiografare l'anima dei suoi personaggi. Questa è la storia del cambio di rotta di un uomo privo di nome, di un “uomo ridicolo”, ma senza riso. Chi non si è sentito umiliato dalla vita a causa di se stesso? 
Lavia ci trascina in un lungo sogno dalle immagini vivide, passando da momenti di gotica cupezza quando narra della sua morte e della sua sepoltura, a momenti di gaiezza e utopica gioia nell'immaginarsi in un mondo di uomini puri e scevri da ogni corruzione d'animo. Una straordinaria analisi filosofica sotto forma di onirica avventura. L'uomo ridicolo ormai atterrito da quel che ritiene essere il più puro nichilismo, ordisce la fuga definitiva dal nulla e dall'ineluttabilità dell’indifferenza del mondo, ma l'incontro fortuito con una povera bambina lo porta a comprendere che la sua indifferenza era solo una protezione che non può impedirgli di provare sentimenti di pietà e vergogna. Mentre siede sulla poltrona di casa con la rivoltella con la quale medita di uccidersi, sente qualcosa incrinarsi nelle sue certezze e finisce per addormentarsi. Durante un viaggio fiabesco scopre la natura profonda dell’uomo, rinuncia al suicidio e si eleva a rivelatore della verità. Ma ben presto scoprirà che quella che ha ricevuto è una rivelazione amara, in un contesto sociale iperindividualista in cui nessuno è disposto ad ascoltarlo, viene considerato ridicolo, addirittura pazzo. 
Questa serata al Teatro Basilica, insieme a tutti i “Frammenti” che andranno in scena fino a dicembre, sono una boccata d'ossigeno verso un uovo slancio del fruire dell'arte e della cultura insieme. 
Lo stesso Gabriele Lavia sottolinea con queste parole: “Abbiamo sperimentato la segregazione dei corpi. L'essere umano deve toccarsi, ha bisogno del corpo, anzi è corpo. In teatro poi, è l'unica cosa che ci salva dal tradimento della parola" .

Susy Suarez


13 ottobre ore 21.00

TeatroBasilica 

GABRIELE LAVIA in

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO 

di Fëdor Dostoevskij Dostoevskij 

diretto ed interpretato da Gabriele Lavia

lunedì 30 marzo 2020

" USARE LA QUARANTENA PER SFUGGIRE AL CONTAGIO DELLA FOLLE VERTIGINE COLLETTIVA DELLE ESIGENZE SOCIALI" SUSY SUAREZ - RIFLESSIONI DA UNA QUARANTENA


Tutti siamo vittime, me compresa, della coscienza collettiva ottusa e ignorante che ci offre una specie di lista della spesa a cui crediamo di doverci attenere per non esser esclusi: dobbiamo sposarci, avere figli, vivere in una bella casa, guidare una bella auto, indossare vestiti firmati, frequentare quel posto piuttosto che l’altro, e ci atteniamo alle idee dei più fino a sacrificare e poi totalmente dimenticare la nostra vera natura. Inseguiamo il gregge fino a smarrirci in esso e ci convinciamo di desiderare cose di cui non abbiamo alcun bisogno. Facciamoci domande, solo così possiamo imparare a muoverci criticamente nella realtà, perché le domande arricchiscono la nostra immaginazione e intaccano l’arroganza dogmatica della massa. A metterci in crisi è il confronto continuo tra ciò che abbiamo, ciò che hanno gli altri, e ciò che manca per raggiungere lo standard di benessere in ascesa costante, complici i miti mediatici, viviamo in un costante contrasto tra necessità psicologiche e risorse pratiche e si crea questa ansia collettiva. Il rischio però è di non percepire i propri limiti.
Tutto questo inibisce il piacere e la gioia di vivere, perché il nostro tempo ci sollecita alla spasmodicità di desideri insaziabili, perché il nostro desiderio è insediato dall’affanno con cui cerchiamo il piacere, perché la nostra mente è perennemente proiettata da qualche parte rispetto alla realtà del presente. La vita ci passa accanto e non ce ne accorgiamo. Viviamo sfasati tra risentimenti e nostalgie del passato, preoccupazioni e fantasticherie sul futuro.
Il “senso d' appartenenza” è una gran fandonia non è vero che non si può vivere senza appartenere a qualcuno o a qualcosa, bisogna saper bastare a se stessi! Ciò non significa escludere il prossimo dalle proprie scelte. Il dialogo è indispensabile e importante, non si può pensare da soli perché la critica altrui è l’unico mezzo di verifica e controllo del nostro pensiero, ma non bisogna vivere la propria vita in funzione di nulla e di nessuno, altrimenti si consuma in essa tutta la propria energia e si respinge la serenità finché non la si avrà raggiunta, cioè mai.
Nasciamo nella fiducia che qualcuno ci nutra e ci ami, ma possiamo crescere e diventare noi stessi solo se usciamo da questa fiducia senza restarne prigionieri. A volte c’è chi inconsapevolmente se ne imprigiona solo per restare rannicchiato in un area protetta dove chiamiamo fedeltà e amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è per il terrore di incontrare se stessi, con il rischio di non essere mai davvero nati.
Tradire se stessi significa inseguire modelli esterni che non ci appartengono. Osservarci dal di fuori invece di comprenderci dal di dentro.
Un approccio alla vita basato solo sul dovere e sul giudizio degli altri impedisce di scoprire cosa ci piace o ci piace davvero, le passioni e gli odi che ci animano nel profondo.
Smettiamola di pensare senza sosta a ciò che si è o non si è ottenuto, la vita così si consuma!
La mente serena non si adagia su idee fisse, non capta solo un accordo della grande sinfonia della vita ma si dispone a lasciare scorrere tutte le note. Spesso ci lamentiamo che le persone abbiamo il potere di farci del male, in realtà siamo noi che glielo permettiamo.
E’decisivo saper dare il giusto peso ai fatti negativi e positivi e riuscire a fare un bilancio equanime, perché spesso il senso della sconfitta ci impedisce di vedere e cogliere le cose costruttive che ci sono successe ed è facile così cadere in errori di prospettiva. Digerire il passato e aprirsi al futuro. Nel mio lavoro costante per imparare a trovare l’equilibrio e la parsimonia (sia nel modo in cui gestisco i miei beni materiali, sia nel modo in cui elargisco i miei sentimenti), quantunque appaia la tristezza cerco di viverla come una condizione in cui trovi spazio anche la gioia, la riflessione, la scoperta. La vita è bella e preziosa e la vera libertà non consiste nel abbandonarsi totalmente alle proprie passioni, ma nel saperle dominare razionalmente e goderne con intelligenza.
Susy Suarez in quarantena  

"Chi non può ragionare è un pazzo. Chi non vuole è un bigotto. Chi non si interessa è uno schiavo" 
ANDREW CARNEGIE

La nostra epoca è diventata talmente ovattata che cerca i curare con le medicine anche la coscienza, ma non riuscirà mai a guarirci dall’essere uomini. La saggezza non sta nell’astenersi dal sentire ma dal sentire tutto, così come viene. (Eric-Emmanuel Schmitt- Piccoli crimini coniugali) 

martedì 28 gennaio 2020

LE BRACI - Regia di Laura Angiulli


In scena al teatro Piccolo Eliseo dal 23 gennaio al 9 febbraio “Le braci” tratto dal celebre romanzo di Sàndor Màrai scrittore e giornalista ungherese naturalizzato statunitense.
Tutta la produzione di Màrai è stata riscoperta in modo tardivo, ripubblicata in francese, inglese, tedesco e italiano, ed è ora considerata parte dei capolavori della letteratura del ventesimo secolo. L'opera “Le braci” infatti, fu pubblicata nel 1943 ma apparsa in Italia solo nel 1998 e non ha mai smesso di incontrare il favore di migliaia di lettori, divenendo un classico della letteratura mitteleuropea, emblema di un mondo perduto.
Numerose le riproposizioni teatrali in giro per il mondo, persino operistiche. Il testo di per sé nella sua struttura potrebbe mostrarsi favorevole a un simile lavoro di adattamento, ma in realtà chi lo ha letto con attenzione capirà la difficoltà di questa operazione essendo quello di Marai oltre che uno stile asciutto e raffinato, anche adorno di descrizioni minuziose e digressioni interiori che non è facile rendere al di fuori della carta stampata.
Mettere in scena un testo così dialogico è operazione complessa. Fulvio Calise in questo caso lo riduce con accuratezza ad una pièce di sessanta minuti, restando fedele al testo e all'eleganza sintattica dell'autore, ritagliandone i passaggi più preziosi e rappresentativi, non indugiando sui preamboli e introducendo quasi immediatamente l'incontro fatidico tra i due protagonisti.
Konrad (Stefano Jotti) sapeva che un giorno sarebbe tornato a Vienna, e il generale Henrik (Renato Carpentieri) sapeva che un giorno sarebbe giunto quel momento. Solo questa consapevolezza ha mantenuto in vita entrambi per anni.
Márai nel suo testo riserva parole molto profonde e si dilunga non poco per descrivere il loro legame di un tempo. In questo caso lo si afferra man mano che il colloquio prende forma e che le dinamiche iniziano a dipanarsi.
La scena è ferma, scarna, quasi a sottolineare un mondo ormai spento. Sono i ricordi a farla da padrone, in una stanza in cui non si entra più da quarant'anni. Nel castello dell'aristocratico generale Henrik tutto è rimasto come prima. La pièce ha inizio proprio con l’ingresso perentorio di Henrik in quella stanza. E' tempo di riesumare le tre poltrone, sulle quali i due amici solevano trascorrere le loro giornate insieme, liberandole dai vecchi lenzuoli che le ricoprivano, quei giorni in cui l' amicizia e l'amore sembravano sacri, intaccabili. La scenografia è essenziale: una piccola scrivania in un lato, il caminetto sulla parete e le tre poltrone poste a triangolo, quel triangolo maledetto che ha avvelenato le loro vite.
Sullo sfondo il crollo dell’Impero Austro-Ungarico durante il quale si è consumata la fine di un’intera classe politica, economica e militare. Il testo di Márai osserva quel periodo dalla prospettiva di una forte amicizia, due mondi che si scontrano, l' aristocrazia e l’incalzante classe borghese.
Da una parte Henrik, le eleganti dimore e le battute di caccia, dall'altra Konrad, la modestia di una vita semplice e l'amore per la musica.
Henrik afferma di essersi sempre adattato allo stato di inferiorità sociale dell’amico, offrendogli al contempo la possibilità di condividere con lui le sue disponibilità, ma oltre a queste finisce per condividere, suo malgrado, anche l'amore di una donna ormai scomparsa, la cui presenza non ha mai spesso di imperare su di loro.
L'azione rende il senso di ineluttabilità. Ci troviamo di fronte a un incontro inesorabile tra due sopravvissuti al loro tempo e tenacemente rimasti vivi, resistendo stoicamente in una bolla d’attesa.
Renato Carpentieri è un caposaldo del teatro italiano e anche il cinema tardivamente riconosce la sua grandezza nel 2018 attribuendogli un David di Donatello per l' interpretazione nel film “La tenerezza” di Gianni Amelio.
Il suo generale Henrik parla e si muove con fredda lucidità attraverso la quale striscia una rabbia mai sopita. Il Konrad di Jotti appare un uomo piegato dall'amarezza, contrito e affaticato.
Le braci” è un teatro di parola in cui la regia di Laura Angiulli, misurata e pertinente, viene ottimizzata dal disegno luci ben configurato di Stefano Accetta che esalta i momenti più salienti.
E' Henrik per lo più a parlare, l'amico lo ascolta e cerca di raccontare le sue verità, ma nulla svela, nemmeno quando il generale giunge a formulare la fatidica domanda che da quarant'anni gli rimbomba nel cuore.
La stanza diventa una gabbia entro la quale si annusano e si scrutano come due leoni, per poi riprendere posto sulle loro vecchie poltrone. Henrik lancia il suo attacco, Konrad incassa ma non cede.
Ora davanti al fuoco simbolico del caminetto, nel quale in un atto estremo Henrik brucia il diario della sua amata, l’animo umano troverà pace solo quando la brace diventerà cenere.
Non ci saranno vincitori né vinti in questa parabola del rancore e dei rimpianti, e la fine porterà solo alla consapevolezza che “la verità” ormai non ha più alcun senso.

Susy Suarez 

 LE BRACI 

di Sándor Márai
Con Renato Carpentieri e Stefano Jotti
Adattamento: Fulvio Calise 
Regia: Laura Angiulli 
Aiuto regia: Serena Sansoni

domenica 12 gennaio 2020

DITEGLI SEMPRE DI SI'-Regia di Roberto Andò




Ditegli sempre di sì” in scena al teatro Ambra Jovinelli dall’ 8 al 19 gennaio è uno dei primi successi firmato Eduardo De Filippo. Scritto nel 1925 Eduardo lo destinò, quale primo interprete, a Vincenzo Scarpetta. Col tempo tuttavia ci si affezionò molto e vi furono varie riproposizioni tra cui la meravigliosa versione televisiva del 1962. Il protagonista è Michele Murri, il quale dopo un anno d'assenza torna a casa della sorella. Michele non rientra da un lungo viaggio d’affari, come si vuol far credere agli amici e ai vicini, bensì da un anno passato in un manicomio e dimesso dopo essere stato considerato dal suo medico ufficialmente pronto alla riabilitazione nella vita quotidiana. Diagnosi che, col dipanarsi della vicenda, vedremo rivelarsi fallace. Roberto Andò sembra essere rimasto fedele all'impianto registico di De Filippo, allo stile e alla forma del teatro classico di tradizione napoletana, evitando tediose rivisitazioni o la ricerca forzata di scialbe originalità, e lo fa in maniera ineccepibile dal punto di vista formale. “Ditegli sempre di sì”, come tutte le fortunate opere di De Filippo, racconta la società italiana del novecento ponendo l’interesse focale sul nucleo familiare, il vero specchio della cultura napoletana, e attraverso il tema della follia offre una sagace analisi dell'assurdità dei comportamenti sociali.
In scena un cast numeroso di indubbia professionalità.
Il teatro di De Filippo si distingue per specifici caratteri e maniere, ovviamente intriso da un umorismo che si esprime attraverso la musicalità dell' inflessione e del dialetto napoletano, dialetto che ha i suoi tempi e i suoi equilibri, che sono quelli della verità, in questo caso però edulcorati in favore di una recitazione dai ritmi eccessivamente accelerati, dai toni farseschi e manieristici spinti troppo fuori dal seminato per una pièce di livello come questa. Questa scelta non aggiunge nulla all'opera, non la rende né più divertente né più agile, ma ne svilisce l'autenticità e la profonda attualità.
Il lato farsesco è solo parte dell'intreccio, ma in questo caso sembra si sia voluto conferire a tutti i personaggi un aspetto esasperatamente macchiettistico che li limita e li appiattisce.
Michele Murri è il perno della commedia, sia perché ne è il protagonista, sia perché il suo interprete, Gianfelice Imparato, al cinema, in tv o in teatro, riesce sempre ad attribuire ai suoi personaggi una speciale autenticità che gli appartiene, e in cui riverberano naturalmente le corde di Eduardo. Il suo Michele funziona: con le ingenuità, i balbettii, l'incedere incerto e buffo che inteneriscono e divertono allo stesso tempo. Michele prova a rapportarsi con gli altri secondo un proprio codice linguistico, cerca il ragionamento ossessivamente, prende tutto alla lettera, puntualizza ogni cosa che gli viene detta con una precisione maniacale. La pazzia di Michele appare come una forma patologica di innocenza, di purezza senza filtri che non può essere compresa all'interno dei meccanismi del vivere comune, fatto di convenzioni, ipocrisie, inganni, illogicità ed egoismi. Per questo involontariamente innesca una serie di fraintendimenti, equivoci e ironie sulle quali si impernia tutta la commedia.
Insieme a Michele a sostenere le scene più esilaranti e in fine anche più toccanti dell'opera è Luigi (Edoardo Sorgente), studente spiantato e fannullone che prova a fare l'artista con scarsi risultati. Sorgente spicca indubbiamente per l'incredibile energia con la quale cavalca la scena. Spassoso il momento in cui intorno al tavolo Luigi recita una poesia per far colpo sulla sua amata, di cui segretamente è innamorato anche Michele.
Eleganti e appropriate le scene e il disegno luci di Gianni Carluccio, dal salotto della casa della vedova Teresa Lo Giudice (Carolina Rosi) del primo atto, sino alla tavola da pranzo nella residenza di campagna dell'amico di famiglia Vincenzo Gallucci (Gianni Cannavacciuolo). Sarà qui infatti dove tutti si ritroveranno nel secondo atto e si compierà il sorprendente epilogo.
Michele si sente frustrato e fuori posto non riuscendo più a comprendere, e barcolla sul confine tra lo sragionare e il ragionare oltremodo, portandoci a considerare come in fondo la follia possa essere null'altro che una forma di eccessiva lucidità.
Poetico ed evocativo il quadro finale in cui tutti i personaggi indossano giacche e camicie bianche, citando il tipico abbigliamento dei malati mentali nei manicomi. In fondo come diceva Alda Merini: “Chi decide chi è normale? La normalità è un'invenzione di chi è privo di fantasia”.
Susy Suarez



DITEGLI SEMPRE DI SI’”
di Eduardo De Filippo
con (in ordine di apparizione) Carolina Rosi, Paola Fulciniti, Massimo De Matteo, Edoardo Sorgente, Vincenzo D'Amato, Gianfelice Imparato, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Nicola Di Pinto, Viola Forestiero, Boris De Paola, Gianni Cannavacciuolo
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Francesca Livia Sartori
regia Roberto Andò
produzione Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo
Fondazione Teatro della Toscana