Le mille luci di una New
York in bianco e nero, poi una strada deserta di notte tra le
sterpaglie, due ragazzi, Mario
(Cristian Giammarini) e Steve (Giorgio Lupano),
amici di sempre, si incontrano per correre, allenarsi alla grande
maratona. Iniziano e, a parte una breve pausa, non si fermeranno mai
per tutta la durata della pièce. Alle loro spalle un cielo stellato
incombe, uno spazio siderale che mette i brividi con la sua
fissità, attraverso il quale, schegge di ricordi passano in frame
convulsi che fanno appena in tempo a colpire la retina e sparire.
Ricordi
di infanzia, di un'adolescenza imbranata, rimpianti, “Vorrei poter
correre indietro nel tempo e spaccare tutte le facce che non ho
spaccato” dice Mario, e Steve, che gli rimprovera di parlare sempre
del passato e gli intima di continuare a correre, di non provare a
fermarsi, di correre attraverso il dolore fino a rendersi
insensibili.
Dalla conversazione
apparentemente leggera, quotidiana, emergono due caratteri diversi,
la forte determinazione un po' cinica di Steve, che incarna tutti gli
stereotipi del mito della prestanza, intelligenza, prestazione ed
efficienza in un continuo desiderio di dimostrare alla vita di essere
migliori, non fermarsi a costo di “farsi spappolare la milza”
perché la “vita è un incubo e bisogna fargliela pagare”, Mario
invece è il più vulnerabile, nostalgico, malinconico.
Senza mai fermarsi
sembrano parlare del più e del meno e l'azione dà l'impressione di
non essere destinata ad avere apparenti risvolti, finché pian piano
i personaggi si fanno meno distanti e inaspettatamente Mario prende
lo slancio e supera l'amico. Adesso è lui ad incitarlo a non
mollare, a seguirlo al di là del passaggio a livello oltre il quale
non si sono mai spinti prima, ma Steve non può farlo, lo guarda
allontanarsi inghiottito dal buio.
La pièce è strutturata
in modo che nello spettatore salga gradatamente l'inquietudine e il
sospetto di star assistendo a qualcosa di più che una semplice fatua
conversazione tra due giovani in allenamento, e i video, i suoni, i
ritmi, sapientemente commisti e strutturati, catturano l'attenzione
fino alla fine.
Il
testo è quello del premiato drammaturgo lombardo Edoardo
Erba,
scritto nel ’91, vincitore l’anno dopo del Premio Candoni,
tradotto in 15 lingue e messo in scena in diversi paesi del mondo.
Originale e metafisico, la
sua forza è nell'allusione e nella suggestione di uno spazio e di un
tempo che sembrano non avere consistenza. Un testo che ha bisogno di
sedimentarsi ed essere metabolizzato perché affiorino alla coscienza
tutte le metafore e i sottintesi di cui è disseminato. Usciti dal
teatro man mano si compongono i tasselli, si dipanano interrogativi
e altri ne emergono.
Nonostante
lo sforzo fisico a cui i due attori, (nonché registi della pièce),
sono sottoposti, non calano mai in naturalezza e in forza
interpretativa.
Il
loro coinvolgimento nell'azione e totale e totalizzante, due diversi
modi di correre, due diversi modi di passare attraverso la vita, che
alla fine non è altro che una grande Maratona di New York. Avere
anni di corsa nelle gambe, correre senza sapere nemmeno più perché si corre e dove si vuole andare, per poi finire inevitabilmente al di
là del passaggio a livello, nel freddo cosmico.
SUSY
SUAREZ
MARATONA
DI NEW YORK
di
EDOARDO ERBA
diretto
e interpretato da
CRISTIAN GIAMMARINI e GIORGIO LUPANO
Arriva dal
2 al 6 maggio 2012 al Piccolo Eliseo di Roma
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