Un
monologo femminile in cui, attraverso l'ottima scrittura di Francesca
Zanni, la poetessa statunitense Anne Sexton torna dall'aldilà per
raccontarci del suo inquietante mondo di dentro.
Quasi
sempre atteggiata in una posa rigida, innaturale, con un cocktail in
una mano e una sigaretta nell'altra, una posa artefatta come la sua
perfetta vita da borghese benestante. Appare di bianco vestita come
una sposa. Il vestito da sposa è il suo scafandro, che l'ha
trascinata giù, relegandola a una vita da moglie, madre e casalinga,
come i dettami soprattuto dell'epoca imponevano. Ma a che prezzo?
Le
sue parole ci conducono in un viaggio imprevedibile dentro quella che
chiamiamo follia.
Ma cos'è infondo la follia? Esiste davvero o è solo un'
intermittenza del cuore che ti fa trovare solo dinanzi a te stesso,
al mistero dell'essere, all'enigma angosciante del senso
dell'esistenza, a sentite di appartenere ad un'altro pianeta, a non
appartenere alla “vita di fuori”, come ci ripete più volte la
Sexton in questa intensa pièce.
Crescenza
Guarnieri impeccabile, si avvolge totalmente in ogni piega del suo
personaggio. Nei suoi occhi a tratti scintilla la follia, naviga il
dolore, traspare la lucidità, sfolgora l'euforia, in un perfetto
connubio tra padronanza del mestiere, cuore e generosità.
Certamente
sostenuta da un'ottima direzione, la si percepisce come
un'apparizione, un' anima in pena risorta dal purgatorio per
raccontare di sé e poi tornare indietro, all'infinito. Il bianco e
il rosso sono i colori dominanti. Rose rosso vivo sulla sua vaporosa
gonna bianca e ai suoi piedi, bianchi gli schienali delle sedie di
un' astratta tavola, seduti intorno alla quale l'immaginazione ci
rivela le incorporee presenze di “tutti i suoi cari”: il padre,
la madre, le due figliolette, il marito e il medico psichiatra che la
tenne in cura.
Tutti
i suoi cari, che non riuscivano ad essere il centro del suo mondo. La
priorità era scrivere, scrivere come respirare. Con i suoi reading
dolenti, riuscì a scuotere e impressionare tanto da arrivare a
vincere il premio Pulizer per la poesia nel 1967.
Il
suo genio letterario fu fortemente legato al suo tormento. Si dice
che l'arte nasca dalla sofferenza, che sia un
mezzo, un meccanismo eccezionale capace di aiutare a ristrutturare il
dolore. Forse è quello che la Sexton cercava di fare riversando
tutto nei suoi versi, ma che non le riuscì a salvare la vita.
“Tutti
i miei cari” è un ottimo omaggio a una poetessa che ha usato la
parola come una spada impietosa per squarciare il velo dell'ipocrisia
borghese, e che grazie a questa pièce, muore e risorge ogni
sera, sul un palco, davanti agli occhi di chi vorrà ascoltarla.
Susy
Suarez
Nessun commento:
Posta un commento